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La trappola della felicità di Russ Harris

Il libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza. Fino a venti o trent’anni fa se qualcuno avesse parlato di “accettare un sintomo”, il sadico psicologo o psichiatra di turno avrebbe potuto pensare metaforicamente a una bella ascia terapeutica con cui tagliare via il disagio. Negli ultimi anni la parolina magica accettazione ha assunto, in ambito psicologico, il significato di accogliere e integrare anche i lati di noi che non ci piacciono, che ci fanno soffrire e che vorremmo eliminare. La prima parte del libro si concentra sul relazionarsi diversamente ai propri pensieri, più che cercare di correggerli, in linea con i concetti di mindfullness, che a sua volta si ispira a un atteggiamento proprio delle religioni orientali, in particolare il buddismo. L’autore si batte molto sul togliere valore al pensiero come capacità umana suprema, consigliando la “defusione” dai propri pensieri. Noi non siamo ciò che pensiamo, ma i pensieri sono prodotti del nostro cervello, che talvolta ostacolano l’agire in base ai nostri valori. Quindi viene consigliato di fare spazio dentro di sè ai pensieri disfunzionali e alle emozioni spiacevoli e di dargli il benvenuto, arrivando a ringraziare la propria mente, piuttosto che maledirla, per averli prodotti. Questo lasciare uno “spazio di respiro” al disagio ha la finalità di non permettere alla sofferenza di amplificarsi, ma di manifestarsi in modo naturale, per poi scomparire. D’altra parte anche le emozioni piacevoli arrivano e passano, ma con quelle siamo solitamente più accoglienti. Uno degli obiettivi è quello di coltivare il sé osservante, entità mentale non giudicante che di solito non riconosciamo, e che si contraddistingue dal sé pensante che ci induce spesso a lottare contro la realtà. Ci sono molti esercizi utili per coltivarlo. Per esempio, mentre leggete questa recensione, cercate di osservarvi mentre la leggete e di essere consapevoli del fatto che vi state osservando. La seconda parte dell’opera fa riferimento ai valori, cioè ai nostri desideri più profondi rispetto a come vorremmo essere e a come vogliamo rapportarci al mondo. I valori vanno distinti dagli obiettivi, che sono i risultati desiderati nella vita. La maggior parte dei sociologi e degli opinionisti accusa, spesso in modo condivisibile, la nostra società postmoderna di aver perso il sistema dei valori, che in altre epoche (o anche oggi in altri mondi) furono imposti dalle religioni o dalle ideologie. Nelle nostre vite così libere e, a tratti disorientate, connettersi con i propri valori può essere un modo per non perdersi. Una volta chiariti i propri valori, si può agire in base ad essi, perché come sottolinea l’autore non siamo padroni dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, ma delle nostre azioni eccome! Il cambiamento, che ricordiamolo non è quasi mai piacevole o indolore, deriva secondo l’autore dall’allenarsi a rapportarsi diversamente ai propri pensieri e stati d’animo e a vivere guidati dai propri valori. Harris invita il lettore ad aspirare a una vita più piena e significativa, fornendo gli strumenti per uscire da una sorta di schiavitù dei propri lati oscuri, vere fabbriche di autoaccuse e di trappole paralizzanti. Per rendere più autentico il racconto, l’autore narra le proprie difficoltà e resistenze nello scrivere il libro stesso e di come sia riuscito a vincere “il blocco dello scrivano” proprio grazie all’uso delle strategie illustrate nel volume. State of Mind Il Giornale delle Scienze Psicologiche

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