Quando si intraprende un percorso di psicoterapia può essere inizialmente disorientante rilevare la differenza tra il rapporto che si crea con il terapeuta e tutti quelli fino ad allora sperimentati. In esso, infatti, diversamente da quanto accade con i familiari e gli amici da un lato e con i medici e le altre figure sanitarie dall’altro, il livello molto elevato di intimità coesiste con il mantenimento di un assetto relazionale specifico, mediato da un insieme di norme implicite ed esplicite piuttosto diverse da quelle che regolano i rapporti consueti. Tali norme costituiscono il setting della psicoterapia. SETTING TERAPEUTICO, CHE COS'È? La psicoterapia si basa sulla riedizione all’interno del rapporto terapeutico degli schemi interpersonali sperimentati e interiorizzati nel corso della vita. A partire da un’idea di terapia come processo, è possibile fornire una definizione del setting: esso è il binario entro il quale scorre il processo terapeutico, la cornice che racchiude la dinamica relazionale in atto. L’esistenza di un setting definito è l’indispensabile precondizione della terapia, in quanto permette, attraverso le sue determinanti fisse, di percepire ciò che si dispiega al suo interno, ovvero i movimenti relazionali messi in atto dalla coppia paziente-terapeuta. Possiamo suddividere il setting in componenti esterne e interne. Le prime hanno a che fare con lo spazio fisico entro il quale si svolge la terapia, ovvero l’insieme degli aspetti materiali del luogo nel quale avvengono gli incontri (la stanza, la posizione reciprocamente assunta, la persona del terapeuta) e delle norme contrattuali che regolano il rapporto (la frequenza, il ritmo e la durata delle sedute, gli accordi sul trattamento e le comunicazioni). Le componenti interne del setting riguardano invece lo specifico assetto mentale assunto dal terapeuta. SETTING ESTERNO L’ora trascorsa nella stanza di terapia rappresenta per il paziente un “time-out” dalle sue attività quotidiane e dal suo abituale stile di comportamento e comunicazione anche in virtù del fatto che l’incontro si svolge all’interno di un luogo protetto e facilitante, le cui caratteristiche agevolano l’espressione senza censure di ciò che al di fuori non si direbbe. L’articolazione delle sedute secondo una frequenza fissa e un tempo ritualizzato favorisce lo sviluppo di quella fiducia che è premessa all’aprirsi all’altro. La frequenza può andare da una a tre o più sedute settimanali. Anche la durata delle sedute è al servizio della tecnica, in quanto, inserendo la dimensione del limite nell’incontro, svolge una funzione di contenimento che è di per sé strutturante. Inoltre la segmentazione degli incontri in moduli di durata definita, oltre a consentire, nello spazio di tempo che intercorre tra di essi, una sedimentazione ed elaborazione dei contenuti emersi in seduta, favorisce la costruzione o il ripristino di quello spazio progettuale che può talvolta risultare deteriorato in chi vive un disagio esistenziale o è oppresso da un sintomo disturbante. Dopo una prima fase conoscitiva, che può implicare un numero variabile di incontri, paziente e terapeuta si accordano sui vari aspetti della terapia attraverso la stipulazione di un contratto, con il quale oltre ad affrontare le questioni pratiche inerenti orari, pagamenti, gestione delle vacanze e delle sedute mancate, vengono fornite anche alcune informazioni sullo svolgimento del trattamento, in particolare sulla posizione fisica reciprocamente assunta e sulle specificità della comunicazione. Gli incontri si possono infatti svolgere in vis à vis, con paziente e terapeuta sulla poltrona, disposizione molto utilizzata soprattutto nelle psicoterapie a cadenza monosettimanale, oppure con il paziente sdraiato sul lettino e il terapeuta in posizione arretrata, come suggerito dal metodo analitico classico, che però presuppone una frequenza settimanale plurima. Questa disposizione, grazie alla limitazione degli stimoli visivi e dunque del feedback offerto dalla visione dell’altro, facilita, tra le altre cose, la concentrazione sul mondo interno e il fluire nel paziente delle libere associazioni, ovvero dei pensieri che spontaneamente emergono alla mente e le cui connessioni rappresentano importanti “finestre” sull'interiorità del paziente. La seconda accezione di setting è quella interna, intesa come lo specifico assetto mentale che caratterizza il terapeuta e che consiste sia nella capacità di introdurre il minor numero possibile di variabili nello svolgimento del processo, al fine di mantenere sgombero il campo relazionale da interferenze, sia nella capacità della mente di fluttuare fra stati diversi, ovvero di riservare attenzione contemporaneamente alle comunicazioni dell’altro e ai propri stati interni, ai significati immediatamente disponibili alla coscienza e a quelli più remoti e nascosti. Un valido setting interno implica anche la capacità di mantenere un atteggiamento neutrale, bensì in equilibrio tra la necessaria distanza dell’Io osservante e l’umana ed empatica vicinanza dell’Io partecipante. Spesso, le sue comunicazioni sono costituite da interpretazioni, ovvero interventi finalizzati a mettere in luce aspetti del mondo interno del paziente che egli da solo non è in grado di cogliere a causa delle sue stesse difese. Garantire la solidità del setting interno significa infine non derogare agli aspetti etici del rapporto, che implica assumere la comunità scientifica di riferimento come terzo interlocutore per tutelare l’altro e se stesso dai rischi di collusione e manipolazione, mantenendo sempre come obiettivo prioritario i bisogni di cura del paziente individuati sulla base di una diagnosi accurata. Su tali bisogni anche il setting esterno deve potersi modellare in maniera flessibile.
Studio Kairos